C’era un tempo, lungo le coste assolate della Sicilia, in cui i pescatori tornavano a mani vuote, ma non per questo rinunciavano al profumo del mare nei loro piatti.
Quando i frutti di mare scarseggiavano e i soldi ancora di più, le famiglie marinare si affidavano alla sapienza antica, tramandata a voce, tra una risacca e un tramonto. “Cu lu mari ‘nta panza e la fantasia ‘nta testa, s’arricria puru la miseria”, dicevano i vecchi.
Così, nelle cucine affacciate sugli scogli, si faceva di necessità virtù. In una padella di ferro annerita dal tempo, si scaldavano aglio e olio buono. Ma invece di cozze, vongole o gamberi, si mettevano a rosolare i sassi di scoglio, raccolti lì dove il mare si infrange e lascia il suo respiro salmastro.
Erano sassi porosi, impregnati del sapore del Mediterraneo: muschi, alghe, resti salini di molluschi attaccati alla pietra. Bastava scaldarli, lasciarli sfrigolare, e quel profumo intenso, quasi primitivo, si diffondeva nella cucina. Poi i sassi si toglievano, lasciando nella padella solo il condimento profumato — un olio che sapeva di mare, vento e sole. Gli spaghetti ci si tuffavano dentro, avvolgendosi di un gusto antico, essenziale, vero.
E lì, davanti a quel piatto semplice ma profondo, qualcuno sussurrava:
“Lu mari ‘un si mancia, ma si senti.”
Il mare non si mangia, ma si sente.
E in quel sentire c’era tutto: il sacrificio, la memoria, l’amore per la propria terra.
Fu così che nacquero — secondo la tradizione popolare — gli spaghetti allo scoglio: un piatto nato dalla povertà ma ricco di ingegno e dignità, che racconta una Sicilia capace di creare sapori unici anche partendo dal nulla.
Ancora oggi, anche quando il piatto si riempie di cozze fresche e gamberoni, resta in ogni forchettata quell’eco di pietra e sale, quella memoria viva di una cucina che sa essere mare, anche senza pesce.
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